giovedì 30 giugno 2016

Gelida estate

Non ce la faccio più.
Voglio il cielo blu.
E voglio che i miei lunghi capelli
continuino ad abbracciarmi
e a riscaldarmi le spalle
ora che piove ed è tutto bagnato
ed il grigio che colora questi palazzi
è lo stesso del cielo in cui abitiamo.
Non è sorto il sole
non luccica la mia vena sul collo, la mia vena poetica.
Cammino su cadaveri di ombrelli con le ali rotte
su avanzi dell'ebbrezza del sabato sera
su briciole di sangue coagulato che scorre
come acqua sulle scale da lavare
dai miei occhi, lucenti di un sentimento
che il mio cuore ha pestato
come si pesta uno scarafaggio arrampicato, nascosto
ai lati della mia intimità.

venerdì 24 giugno 2016

Angelique, réveille- toi!


Non era in tuo interesse sentire il calore del mio corpo sotto il tuo né di sentire il modo in cui fremevo quando mi sfioravi. Non era necessario chiedermi se fossi viva, se il corpo che stavi guardando fosse felice di essere scheggiato dalle tue mani che ho sempre pensato fossero le mani di chi mi avrebbe lasciato i seni bagnati dai troppi baci e non gli occhi bagnati da una pioggia di troppe contraddizioni e di false intenzioni.
Non c'è stata premura perché non c'era amore, non è stato come avrebbe dovuto essere perché si trattava di un'esperienza meccanica, studiata, preparata come si prepara l'interrogazione nella quale si punta al 7.
Non era amore, era un continuo infilarsi le mani nelle mutande sperando di andare oltre.
Spesso si dice che quando si fa sesso e ci si bacia forse non si tratta solo di sesso consumato nel peggior modo possibile ma c'è un qualche tipo di coinvolgimento emotivo. In noi, o meglio in te, non c'era alcun tipo di amore, semplicemente non sapevi cos'altro torturarmi e così mi distruggevi le labbra.
Non c'era nulla per cui appassionarsi, non c'era niente di cui abituarsi ma non so come e non so perché mi ero quasi cullata sul modo in cui mi guardavi o sul modo in cui non mi chiedevi niente perché pensavi che il mio corpo parlasse per me.
Non era il mio corpo a parlare, non era il bisogno emotivo o la necessità di sentirmi amata e voluta ad assecondare le tue mani, a rispondere ad ogni tua provocazione. Era un istinto umano e con umano intendo qualcosa che si avvicina all'istinto animale e niente di più.
Non pensavo di essere capace di essere così: di essere una donna ''animale'' e non una donna che sa metterci i sentimenti anche quando non ci sono, con gli uomini. Pensavo di non esserne capace ed invece sì: si trattava di sesso puro, come quando squagliano l'eroina sui cucchiai.
Pensavo di star giocando col fuoco di un istinto indomabile ed invece giocavo con l'istinto personale di non sentirmi parte di qualcosa per sentirmi effettivamente complice di qualcuno.
Sta di fatto che però sono stata scottata. Non so come e non so perché avrei voluto che ci fossero le tue mani sul mio corpo per molto altro tempo dopo quella volta ed avrei voluto le mie mani sul tuo viso e nei tuoi capelli per tanto altro tempo ancora.
Sì, è stato così. Non era niente per cui appassionarsi ma mi sono appassionata differentemente dalle aspettative.
Avrei solo voluto che nel niente ci fosse qualcosa e speravo che in quel qualcosa ci fosse anche il tuo ''niente''.

Siamo piccole persone chiuse in piccole finestre.
Alcune volte mi capita di credere di stare perennemente chiusa in una piccola finestra di un piccolo palazzo.
Tutto ciò che vivo lo scrivo semplicemente sui vetri appannati dal mio alitarci sopra, come se fossi una specie di burattinaio che giostra la sua vita. Disegno, scrivo, appunto e manipolo ogni cosa.
Il mio dettare si percuote su un corpo senza vita, un corpo che non ha il tempo di riflettere, analizzare, decifrare ciò che scrivo. Lo fa e basta. Meccanicamente. Istantaneamente. Come un robot.
Scritto in un rosso sangue, così macabro ma così colorato, la mia mente legge come leggono i bambini delle elementari: senza capire un bel niente.
Come le macchine delle poste sotto cui passano le lettere da spedire: capaci di riconoscere il codice del francobollo, ma non di verificare quanto il francobollo sia economico per una lettera che va negli Stati Uniti.
Come il dipendente al comune che timbra di tutto e di più senza nemmeno leggere di che si tratta.
Come chi ti sente, ma non ti ascolta. Come chi capisce, ma poi alla fine non capisce nemmeno il cazzo.
Come il barista che ti dà le caramelle a caffè, quando avevi chiesto le caramelle balsamiche.
Il messaggio c'è, ma non è recepito bene.
Accade nella mia mente, ma non sono sicura di percepirlo solo io.

Un conto è essere accoltellati e morire dissanguati per mano di un assassino qualunque e un conto è essere accoltellati e morire dissanguati per mano di una persona che ha la stessa faccia e le stesse mani di chi ti fidavi, di chi reputavi tuo amico.
Sì, va bene, si muore comunque. Ma quando la mano di chi ti dice di non morire è la stessa che in realtà vuole che tu sia morto non te ne fai una ragione.



Angelique rigirava quel quaderno tra le mani chiedendosi quanto fosse vecchio e soprattutto di chi fosse.
Non c’erano date, firme o nomi di persone che potessero farle capire chi avesse mai scritto quelle pagine. Notò diversi strappi, diverse bruciature e macchie di inchiostro e caffè, sfogliandolo di nuovo con misurata scioltezza.
Decise che doveva essere, decisamente, un diario segreto. Ma quale pazzo potrebbe mai scrivere su un quaderno completamente anonimo su cui non viene scritto  a caratteri cubitali nemmeno il nome del suo possessore? Il diario segreto di Angelique era rosa, non nero. E sulla copertina erano disegnati delle rose, delle farfalle, dei castelli di sabbia. Aveva persino attaccato un adesivo con su scritto in corsivo il suo nome e si disse che era impossibile scrivere un diario segreto senza segnare alcuna data.
Si accorse di alcune pagine stracciate, altre incollate ed altre completamente rovinate. Alcune erano vuote, altre ancora erano completamente scarabocchiate e su alcune c’era semplicemente scritto ‘TI ODIO’.
Continuò a frugare in quel vecchio cassetto nella soffitta della sua nuova casa e trovò alcune foto. Foto di alti alberi, gattini assai piccoli, gelati probabilmente al cioccolato, tramonti e foto di persone che fumavano sigarette, che ballavano e che sorridevano. Persone piccole, ragazzi della sua età, colorati in bianco e nero ed intrappolati in delle foto che quasi propagandavano un’epoca assai lontana da quella in cui era costretta Angelique.
Nel cassetto c’erano diversi libri: adocchiò Il nome della rosaI fiori del male ed Orgoglio e Pregiudizio.
Infilato a mo’ di segnalibro in quest’ultimo, c’era una dedica, datata il 22 agosto 1983.
A te, a te che oggi compi sedici anni e sei la più bella che si possa amare, recitava. Era firmata, in un corsivo che le ricordò quello incomprensibile dei suoi medici, da un certo R. Si chiese perché, si chiese quanta logicità ci fosse nel firmare una dedica per il compleanno della ‘’più bella’’ abbreviando il proprio nome. Angelique, con le mani sporche di polvere ed il naso irritato a furia degli innumerevoli starnuti, si chiese anche se la ‘’più bella’’ fosse autrice del quaderno appena trovato e se le foto (probabilmente fatte con una pessima macchina fotografica) fossero sue.
Ritrovò diverse spille, innumerevoli mollette per capelli, accendini fatti a pezzi, candele profumate (profumate forse venti anni prima) ed una penna stilografica.
Nel secondo cassetto di quel comò c’erano dei rossetti lasciati a rotolare in ogni direzione ed Angelique notò diversi pacchi di profumi e bustine regalo, ma ciò che attirò la sua attenzione fu un grosso e pesante libro, sulla cui copertina c’era incisa una frase in una lingua che riconobbe come greco. Provò ad aprirlo ma si accorse di un catenaccio che la fece sonoramente sbuffare.
- Proprio ora che mi stavo divertendo.
Il giorno dopo la professoressa Crimaldi osservò la foto che Angelique le aveva mostrato.
- E’ un passo celebre di Saffo, una delle più valide poetesse della letteratura greca e della letteratura arcaica in generale. Questa lirica, non so se te ne ricordi, l’ha ripresa Catullo nel carme 51. Letteralmente:dolceamara invincibile belva, riferito all’amore.
Quel libro, rosso ritagliato in color oro, sembrava essere l’unico punto fisso di quella sua settimana.
Un chiodo incastrato nei suoi pensieri, che sarebbero stati liberati dalle sue fantasie solo una volta aperto il tomo.
Magari si trattava di una raccolta di poesie, una raccolta da lei stessa editata, pensò. O magari in quel libro erano state riportate le stesse poesie della ‘’più bella’’ o, molto meno probabile, si trattava di un libro antichissimo che la ragazza (ragazzina, signorina o signora? Ne sapeva pochissimo) aveva ereditato e diligentemente conservato.
Aveva cercato in tutti i modi di forzare quel catenaccio, aveva provato ad aprire quel limite del suo curiosare con tutte le chiavi che possedeva e solo con l’aiuto di un bravo ferramenta, riuscì ad aprire quello stramaledetto libro.
Chiuse nel cassetto della sua scrivania tutto ciò che aveva trovato in soffitta e non vedeva l’ora di tornare a casa per poter finalmente leggere ciò che c’era scritto in quel tomo tanto grande quanto curiosamente interessante, dall’aria meravigliosamente affascinante.
Quando chiuse a chiave la porta della sua stanza poté finalmente aprirlo. Le ricordava l’album di fotografie del matrimonio dei suoi genitori, ma quando ebbe voltato la prima pagina ridusse i suoi occhi a fessure e lesse a stento e faticosamente ciò che c’era scritto.
Mi dispiace se tu sia qui a leggere, sfoglia con premura. E a  pochi centimetri dal fine pagina Angelique pensò che finalmente la ‘’più bella’’ si era rivelata, si era firmata. In un corsivo microscopico e sbavato verso la fine, Lucia Troisi aveva esplicitamente messo in chiaro di essere  la posseditrice di quel diario, che le sembrava fosse più un’enciclopedia.
Ciò che era stato scritto in nero e rosso su quel diario per un momento la sconcertò: pozioni, incantesimi, riti, inni, preghiere, disegni, appunti e considerazioni. Sulla prima pagina c’era scritto, in stampatello ed in rosso lucente, il titolo di quello che era un intruglio per disinnamorarsi dell’amato o dell’amata.
Angelique sfogliò quell’enciclopedia del male per ore ed ore ancora. Scovò incantesimi per intrufolarsi nella mente dell’amato in modo da scoprire cos’è che pensa, riti per far pentire l’amato di qualcosa, preghiere per far sì che l’amato muoia o commetta il suicidio.
Angelique pensò che erano pazzie. Richiuse il libro e si chiuse nel bagno della sua camera senza chiudere la porta. Aprì la finestra e sedette sul water, cercando di calmarsi.
Quella citazione di Saffo l’aveva catapultata in un universo del tutto differente. Avendo letto poi, per pura curiosità, qualche poesia dell’audace poetessa, si aspettava di leggere di ghirlande, affettuosi amori, incarnate gelosie e soffici riferimenti alla mitologia. In quel momento capì cosa Lucia Troisi intendesse per dolceamara invincibile belva. Considerò il rancore che immaginava Lucia nutrisse per chi l’aveva abbandonata a se stessa, eppure non riusciva a concepire il macabro di ciò che aveva letto in quel libro. Le passarono davanti agli occhi i disegni di uomini fatti a pezzi, donne dal corpo di cagne che sbranavano membri e l’immagine di quelle facce sofferenti insisteva e si imprimeva nella sua mente.
Si sciacquò il viso e ancora con gli occhi chiusi si lavò le mani. Stava per aprire gli occhi e tornare al piano di sotto quando una voce parlò e sentì una stretta ferrea sulla sua spalla.
- Chi ti ha dato il permesso di aprire il mio diario?
Angelique non ebbe il coraggio di voltarsi. In realtà non aprì neppure gli occhi.
- Ho detto, chi ti ha dato il permesso di riaprire il mio diario? E perché frughi nei miei cassetti?
Istintivamente riaprì l’acqua e affondò il viso nel lavandino. Aveva paura, sudava freddo e sentì il suo corpo vibrare a ritmo col suo sgomento.
- Angelique, mi senti? E’ pronto a tavola.
Le servì una manciata di minuti per realizzare che la voce che le stava parlando fosse quella di sua madre.
Si rassicurò e quando ebbe aperto gli occhi si chiese come facesse ad essere già notte.

Sua madre le chiese cosa fosse il libro che teneva da un paio di giorni sul più alto scaffale della sua scrivania ed Angelique rivelò che quella era solo una raccolta di poesie greche ritrovata su in soffitta mentre stava ripulendo.
Da quella volta non aveva più aperto quel tomo gigante eppure il pensiero di ciò che era successo le attanagliava la stomaco, fino a farla vomitare ogni volta che ci pensava per più di qualche minuto.
In quei giorni si sentiva assai inquieta e si faceva prendere dal panico ogni qual volta sentiva un rumore sinistro o qualche finestra sbatteva o si apriva per il vento.
Solo dopo settimane, quando si abituò ai rumore della vecchia casa che avevano affittato, ebbe il coraggio di riaprire quell’enciclopedia dell’orrore.
Riprese nel punto in cui si era fermata e lesse, ancora, di come far scoppiare le vene dell’amato o di come torturarlo parlandoci telepaticamente in modo da indurlo alla pazzia. Lucia aveva disegnato cose anche peggiori: Angelique non aveva mai visto la morte, si disse utilizzando la terza persona  mentre osservava disegni dalla violenza bestiale. L’unico datato, tra tutti quelli visti, raffigurava una ragazza dai lunghi capelli ricci e la gola tagliata, una mano non del tutto amputata e penzolante ed una parte del viso più scura, colorata a tratti in grigio. La pelle era raggrinzita ed Angelique non seppe spiegarsi il perché.
Lucia Troisi si era preoccupata anche di commentare i riti che compiva per ammazzare, in ogni senso e in ogni modo, l’amato.
L’ultima pagina, sulla quale erano segnate cinque stelle, spiegava come fare a prendere le vesti di un fantasma ed impossessarsi della persona amata, in modo da poter possedere il pieno e libero controllo del suo corpo. Tra gli appunti dell’ultima pagina lesse quello che Lucia aveva intitolato La Nostra Fine: ‘’Questo è e sarà l’ultimo mio rito. L’ho torturato fin troppo e gli spiriti del male vogliono che paghi io per lui. Mi sento osservata, perennemente. Mi controllano, urlano nelle mie orecchie e non faccio mai nulla bene, me lo dicono sempre. Mi sono svegliata con un taglio sulla gola e mia nonna ha pensato volessi uccidermi da sola. E’ colpa loro, sono loro a volermi uccidere. Non posso dormire, non posso distrarmi, devo stare attenta. Devo uccidere io, prima che sia troppo tardi. Non mi perdonerò …’’. 
Angelique avrebbe voluto continuare, ma un improvviso fruscio fece sbattere la finestra e per la paura le cadde il pesante libro sui piedi. Ma non fu lo sbattere della finestra ad impaurire così tanto Angelique: quella che aveva di fronte era la ragazza del disegno, Lucia Troisi. Capì finalmente perché metà del volto era colorato più scuro rispetto l’altra metà quando si rese conto che la ragazza era morta bruciando.
- Pensavo avessi capito che la mia vita non è affar tuo.
Esclamò tirando su le maniche della camicia che rivelarono diversi tagli, ferite e, ovviamente, bruciature.
- Quando sei arrivata qui non ho messo mani nelle tue cose, non ho letto quello stupido diario rosa e non sono entrata nella tua vita.
Lucia si sbottonò la camicia sporca e sudicia e rivelò l’orrenda mano amputata ed il profondo taglio sulla gola che sembrava quasi cicatrizzato.
- Come ti chiami?
Dentro si sentiva tremare. Avrebbe preferito morire, piuttosto che trovarsi in quella situazione, ma quel come ti chiami fu l’unica e la prima cosa che le venne in mente. Se ne pentì quando la vide stringere furiosamente i pugni.
- Come se tu non lo sapessi. Dammi le foto, il diario nero e il diario degli incantesimi. Sono miei.
- Perché sei morta?
Ignorò la poca gentilezza con la quale le fu imposto di consegnare ciò che non era suo e sviò la conversazione. In modo pessimo.
- Ho detto dammi le mie cose.
Lucia fece cadere un coltello sul pavimento gelato e si avvicinò a lei. Angelique si tirò quanto più indietro possibile e, temendo di poter morire di lì a poco, le parlò con la più sincera dolcezza.
- Lo sai, mi ci ritrovo tanto in ciò che hai scritto. Sul quaderno nero, intendo. Anche io sono stata tradita.
- Ti vendicherai?
Chiese, coi capelli sporchi di sangue.
- No. Non ne ho bisogno.
Temette una possibile reazione di Lucia, ma la ragazza, semplicemente si sedette nell’angolo tra l’armadio e la scrivania.
- Mi sono messa in cose più grandi di me. Mi hanno uccisa. Mi sono uccisa.
Scoppiò in singhiozzi e senza togliersi le mani dal viso, aprì il cassetto in cui erano custodite le sue cose e scomparve. Come se nulla fosse accaduto.
Angelique respirò a fondo. Cercò di capire razionalmente cosa fosse successo e cosa avesse fatto, ma soprattutto cosa le sarebbe accaduto.
Chiuse gli occhi, si distese, pianse. Cosa cavolo stava succedendo? In che guaio si stava cacciando?

Si disse che, quasi sicuramente, qualcuno avrebbe dovuto scrivere qualcosa , anche in modo superficiale, sulla morte di Lucia Troisi. Così, ore e quintali di struccante dopo, scrisse il nome del suo più grande timore nella barra di ricerca di google. Ne parlavano ben quindici articoli ed ognuno di questi raccontava di Lucia Troisi come una ragazzina diciassettenne che, in preda alla cocaina e le pasticche allucinogene, aveva ucciso il ragazzo ‘’amore della sua vita’’ -  come aveva scritto col suo sangue sulle mura del luogo del delitto, la soffitta di casa sua – tagliandogli il membro e poi la gola. Lesse di come si fosse uccisa riprendendo il tutto con un registratore regalatole l’estate prima e di come si sia tagliata la mano e la gola e di come abbia dato fuoco al letto in cui si era rifugiata subito dopo l’omicidio.
Angelique rimase a bocca asciutta. Non poteva crederci. Era confuso, destabilizzata, impaurita ed aveva voglia di piangere. Si chiedeva perché le fosse venuto in mente di aprire quello stramaledetto libro e si chiese perché si trovava lì. Perché lei, perché proprio a lei, perché? Di quante brutalità era capace Lucia? Cosa sarebbe successo? Ci sarebbe stato un ‘’poi’’? L’avrebbe uccisa tagliandole la gola mentre faceva la doccia?
Sentì sua madre piangere, poi ridere, poi urlare e riconobbe rumori di porte che sbattevano, piatti che venivano lanciati, pugni alle mura. Nel frattempo, si sentì la sirena di un’ambulanza.
Decollò per le scale alla velocità della luce ed entrata in salotto si immobilizzò sul posto: il sangue grondava sulle pareti e le mura color panna erano state schizzate da un liquido trasparente. L’istinto suggerì che fosse benzina.
Suo padre cercava di bloccare le mani di sua madre, che urlava, si girava a guardarla e rideva … minacciando di ucciderla.
L’ultima cosa che vide e sentì era sua padre correrle contro e gridare il suo nome.
- Angelique … spostati.
Il modo pietoso in cui urlò il suo nome le fece letteralmente salire il cuore in gola.
- Angelique … Ti prego, alzati. Sono le sei meno venti, dovremmo già essere in autostrada.
Contemporaneamente la sveglia la fece saltare dalla paura e roteare la testa come se dovesse scansarsi da qualcosa.
Aprì gli occhi. Il cuore le batteva come mai prima d’ora, ansimava, le mancava il fiato ed era fin troppo sudata. Si portò una mano sul petto e suo padre sbucò dal bagno dedicandole un buongiorno.
Si avvicinò e la accarezzò dolcemente.
Era tutto un sogno. Era solo un incubo, l’incubo più tremendo che avesse mai fatto.
Si sciacquò la faccia, pettinò i capelli e si disse che era del tutto impossibile sognare una cosa del genere.
Quello non era la realtà, ma neppure un sogno. Si trattava di un vero e proprio film tremendamente sconcertante. Rise alla sua battuta e si sentì sollevata.
Era tutto finito, tutto durato poche ore e mai avrebbe desiderato svegliarsi quanto prima e liberarsi delle braccia di Orfeo.
Partirono quasi subito. La casa era grandissima, gigante osò dire. Si sentiva quasi una principessa in un castello. E a sedici anni, il giorno del suo compleanno, impazzì.
Roberto le regalò un libro: uno spesso, pesante volume, dalla copertina rossa intagliata in color oro.

Capitan America

Non ce la faccio più.
Voglio il cielo blu.
E vorrei togliermi l'armatura 
e potermi coricare
per dormire giorni interi.
Sbatterei la testa contro il vetro
nessuno chiama
nessuno tende mano
sanno solo gridare
Giovanna, Giovanna, Giovanna.
E qual è il problema
dov'è il problema
c'è un problema?
Invulnerabile, invincibile, insopprimibile.
Non ce la faccio più.
Sono stanca. 
E voglio che qualcuno lo comprenda. Sono umana, anche io.

domenica 19 giugno 2016

Venere

I
Come Lancillotto e Ginevra
e Paolo e Francesca
fisseresti le mie labbra
senza il permesso o la costrizione
di baciarle?
Stringi le tue mani sui miei fianchi
spingimi nell'azzurro limpido
della camicia che hai stasera
e tuffati nella miriade dei miei capelli
sciolti, lunghi fino ad accarezzarti le mani.
Balla con me, stasera
e bacia i miei sorrisi cuciti di rose.
Non aver paura delle spine, premono sul mio palato
ma vorrebbero sapere del tuo calore
piuttosto che del mio sangue.
Ti tengo le mani sulle orecchie
per non farti sentire le strilla.
Questo è un mad world, stella.


II
E' amara la tua bocca sulla mia
amara come il liquore che hai versato nel mio cervello
quando dicesti che
è l'amaro dei giorni che hai passato senza me.
Avrei dovuto immaginarlo
che l'amaro ad aggredire le mie labbra
altro non era che il marcio risultato
della saliva di Barbie
mischiata, miscelata, shakerata con la tua.

mercoledì 15 giugno 2016

Follia




Non ce la faccio più.
Voglio il cielo blu.
E se fossi Hitler mi farei bruciare 
assieme alla mia ansia
ai miei mille tentativi di essere
per una buona volta una specie di Gandhi.
Ma se fossi Gandhi stringerei i pugni 
e picchierei sulla mia stessa schiena
perché vorrei non dire questo 
né vorrei dirlo in questo modo.
Lasciando da parte i francesismi 
i latinismi, i neologismi
questa parte di me è disabilitante.
Limitante, opprimente.

lunedì 13 giugno 2016

Bene velle

Mi spogliasti tra le mura della tua stanza
e sbottonarti la camicia significava spogliarti da tutte le tue preoccupazioni
e lasciarti curare, non dal mio corpo.
Dalle mie carezze, non dalla mia passione
dal mio affetto o dal mio volerti bene
senza gelosie, senza rivalità
solo quiete. 
La spogli tra le stesse mura della stessa nostra stanza
e la spogli con le stesse mani che hanno spogliato le mie gambe, i miei fianchi.

Slacciarle il reggiseno significa spogliarla dalle sue insicurezze
liberarla dai suoi timori, dalle sue perplessità, dalle esitazioni.
Spogliarla è volerle bene. Svestirla è scoprirla.

Tu mi hai solo tolto i vestiti di dosso.

lunedì 6 giugno 2016

Azzardare

Non ce la faccio più.
Voglio il cielo blu.
E voglio che queste unghie laccate di rosso fragola
marciscano e si spezzino
e che la smettano di essere il limite della mia bellezza.
Voglio che questi capelli la smettano di essere di un rosso così spento
e voglio che il sole intervenga per farmi sembrare meno cadaverica.
Voglio che questi tacchi finiscano di tintinnare
li odio
e che questo vestito si allunghi a furia di tirarlo verso il basso.
Odio la parte di me che mi ha conciata così, la odio
ed odio queste nuvole bianche fisse in cielo a non muoversi mai.
Amo questo blu furioso, lo amo
amo questa tua camicia bianca, la adoro
odio il modo in cui guardi le mie gambe, lo odio.

giovedì 2 giugno 2016

Siamo morti insieme




Mi fissavi senza dire niente le labbra

ed io mi tolsi il rossetto col dorso della mano
invitandoti alla guerra
porgendoti il coltello per colpirmi.
Posasti la mia fronte sulla tua 
poggiasti le tue mani sul mio volto
e prima che tu potessi anche solo
afferrare l'oggetto del delitto
eri già ferito, ferito di un rosso
che sbiadisce dalle mie labbra alle tue.
Ferito da un bacio colpevole
della nostra morte.