lunedì 8 agosto 2016

E il mio futuro?

Mio padre, che dalla vita non ha avuto niente a parte la cassa integrazione, mi ha sempre detto che se avessi studiato avrei avuto un futuro. Mi sarei fatta la casa al mare, la bella macchina, la bella casa. Perché senza un buon lavoro non ci sono soldi e senza i soldi la vita è quello che è.
Mia madre, invece, mi ha sempre detto che studiando mi sarei creata una cultura. E la cultura ci rende superiori, ci rende responsabili di fatti e di cose, ci rende capaci di interpretare ogni cosa ma soprattutto ci rende liberi, liberi di pensare.
Io, invece, ho sempre detto a me stessa che avrei dovuto studiare per non dover dire ai miei figli di studiare e per non dover dire ai miei figli tutte le palle che mi dice mia madre.
Sia chiaro: apprezzo la cultura. Eppure sono sempre stata convinta che per queste cose ci debba essere un'inclinazione naturale.
Puoi aver fatto il classico, puoi aver superato i test per medicina, ma se non approcci alla vita con inclinazione, con intesa, allora è come se campassi praticamente di niente. Diciamo così.
A me piace studiare, a me piace andare a scuola, a me piace sbattere la testa per due ore di fila sul libro di greco. Ho sogni, ambizioni, progetti e desideri, ma più cresco in quest'ambiente più mi accorgo di quanto sia malsano.
Alla cattedra ci sono professori che non amano il proprio lavoro e di conseguenza, come ben possiate intuire, le loro ''lezioni'' non appassionano nemmeno le mosche attaccate alle vetrate. Nell'istituzione scolastica vige una sola regola: la raccomandazione. E nel mondo lavorativo vige e irrompe una sola regola: se i posti a medicina non ci sono e se ingegneria non fa per te, fai il professore, punisci scolasticamente dei poveri cristi che come te, avrebbero voluto entrare a medicina.
Ho le idee chiare sul mio futuro: voglio insegnare.
E quando mi chiedono perché voglia per forza fare un mestiere che mi farà lavorare precariamente per tutta la vita, io dico che questa è la mia inclinazione.
Quando ero piccola giocavo a fare la maestra, alle medie adoravo spiegare l'argomento del giorno a quelli che non avevano studiato e adesso che sono alle superiori adoro discutere, conversare, entrare nella letteratura. Sì, vorrei essere un insegnante: italiano e latino, perché col greco non c'è stata intesa (colpa di un docente che parafrasava la teoria invece di spiegarla come si dovrebbe? Forse sì o forse no).
Mi dicono eh, ma guarda che c'è mia zia che a 40 anni ha preso la cattedra! Eh, ma guarda che si lavora poco. Eh, ma guarda che è un lavoro che è destinato a morire. Eh, ma guarda che è difficile in questo campo. Eh, ma guarda che studierai tantissimo per concludere nulla.
Eh, embé? Non è forse la mia carriera? Non sono forse le mie ambizioni?
L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, ma vorrei dire a mio padre che la casa al mare, la casa bella e il macchinone li potrò avere solo se lavorassi in inculandia.
Perché l'Italia è una repubblica democratica che dà un'opportunità a chi sta già a buon punto nella vita. L'Italia non lascia spazio a chi vuole emergere, a chi la laurea non la compra, a chi c'ha una cazzo di testa ma a medicina non ci entra perché non ha la spinta.
Così come per le caste sociali in India, così in Italia col lavoro. Come nel Medioevo, i latifondi vanno da padre in figlio, la ''ricchezza'' e la soddisfazione vanno solo ai figli di chi già ce l'hanno.
Magari tra dieci anni sarò laureata, magari sarò anche felice di essere un'insegnante che insegna precariamente. Ma lavorerò comunque alla Vodafone per permettermi anche solo un cesso in cui pisciare.

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