venerdì 2 febbraio 2018

Letargo

Spesso mi sono chiesta:''Io chi sono?''. Oggi mi chiedo:''Io, come mi comporto?''.
Mi sento fragile. E la mia fragilità è legata in un connubio colossale; mi sento fragile e sono adirata, spinosa, lacerante.
All'alba dei miei diciannove anni, lo dico penna su foglio: è questa la prima delle due cose che odio in modo incalcolabile di me.
In me esiste un meccanismo di difesa che mi atterra al cospetto degli altri. Odio essere in un modo e sentirmi in un altro. Tra l'essere e il fare c'è di mezzo un modus operandi che sta rosicando me, tutte le parti di me, quelle che fingo di non sentire, quelle che acquieto ogni giorno fino a crollare.
Sì, gli esseri umani spesso crollano. E a volte, crollo anche io. Ma ogni volta che crollo mi sembra di aver già perso dal principio. Più crollo e più ciò che mostro agli altri mi allontana dalle parole, dalle soluzioni, dalle frasi di circostanza che non farebbero stare meglio me, ma farebbero stare meglio gli altri attorno a me, che ancora si preoccupano di me.
Mi assale la paura. La paura di non essere chi penso di essere nei miei castelli in aria, di non essere per gli altri ciò che sono per me, di perdere ciò che ho costruito attorno a me.
E mentre le mie labbra si socchiudono sembro adirata, incazzata, stronza, ma non è ciò che sento dentro di me. Dentro me tutto cade, non ho certezze, non ho auguri da pormi, non ho una strategia per fare ordine in me.
E' questa la cosa che più odio di me: mostrare gli aculei anche se ho freddo. E' questa l'unica cosa che so fare.

In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace nel mondo, chiedevo la mia.
(Cesare Pavese)

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