mercoledì 4 ottobre 2017

Il Terrore

L'ultima volta che ci andai risale forse all'aprile del mio terzo anno di medie, perché ricordo bene che in una delle ultime sedute parlammo di mia nonna, che era morta proprio gli ultimi di questo mese.
L'ultima vera seduta non la ricordo per niente bene, perché decisi all'improvviso di non andarci più, senza salutarla, senza chiamarla, senza scambiare un'ultima parola. Dissi a mia madre:''Chiamala e dille che non vado più, sto bene ora''. Non me ne presi nessuna ''responsabilità'', non ebbi le palle, come tante altre volte ancora, come tante altre volte prima, come tante altre volte dopo.
Ricordo che facevamo due sedute a settimana. Le prime sedute sono state terribili: io non parlavo, lei parlava per me, ed io per acconsentire piangevo e per dissentire sbuffavo.
In una seduta dei mesi più caldi, credo forse marzo (ricordo benissimo che in quel periodo correva la festa della donna o qualcosa di simile), mi chiese di farle leggere una mia poesia. Io non mi sono mai permessa, mi sono sempre vergognata dell'idea che qualcuno leggesse di me.
In realtà tra me e lei c'era uno spirito di armonia ed uno spirito di caos. Ero completamente a mio agio ed ero completamente a disagio allo stesso tempo.
Per essere coerente con la mia irresponsabilità nell'avere le palle, le dicevo sempre:''La prossima volta ti farò leggere'', oppure:''qualche volta ti faccio leggere la più bella che ho scritto fino adesso''.
In realtà con lei era sempre ''la prossima volta''. Non capivo se fossi a disagio con lei o con me e con quello che dicevo, scrivevo, facevo sul mio corpo.
Era un continuo fingere, da parte mia. Poi scoppiava il Terrore nella mia testa e lei mi diceva:''Se non vuoi parlarmi, posso almeno sentire come stai da quello che scrivi?''.
La mia passione per la scrittura è nata nel periodo più terrificante della mia vita. Da qualche parte avrò ancora conservato tutto ciò che composi, e che non ho avuto più il coraggio di rileggere, perché certe volte ho l'impressione che non c'è niente di terrificante attorno a me, ma terrificante sono io.
Mi chiese di farle leggere una delle mie poesie preferite, perché sapeva che del programma di terza media mi ero appassionata tantissimo a Leopardi. Io scrissi su un foglio a righe ''A se stesso''.

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.

Continuammo questo ''gioco''. Questo forse è uno dei ricordi più vividi che conservo: discutevamo di letteratura, storia, psicologia. Ricordo che una volta leggemmo insieme ''La pioggia nel pineto'' riflettendo sulle parti più belle di quella poesia.
Ne ho anche dei ricordi che mi fa vergogna a dirli, e che infatti non ho confessato mai a nessuno, neanche a mia madre.
In questi anni ci ho pensato spesso. Mi sembra tutto un ricordo sfumato, lontano, troppo passato da poter ricordare.
E in questi giorni, in questi mesi, ci ho pensato anche di più. Avrei voluto ritornarci. Per chiedere scusa, per dirle che non è cambiato niente, per chiederle cosa ha detto a mia madre i primi di maggio quando decisi di non andarci più e quando le chiese di venire in studio perché doveva parlarle.
Una parte di me si chiede se lei avesse previsto tutto questo. Una parte di me si chiede curiosamente cosa lei potrebbe dirmi se dicessi:''Sto così'' e mi denuderei, una volta per tutte, per la prima volta in mesi e mesi. Una parte di me si dice che sono stronzate. Una parte di me invece mi sussurra:''Sei stata senza per cinque anni, perché adesso?''.
Mi sono sempre chiesta cosa ho. Fluttuano attorno a me cose, cose e cose. E non mi sento più me, come non mi sono mai sentita veramente. Mi chiedo se attorno a me qualcuno sa cosa penso, se magari ci si accorge, se magari si nota che qualcosa mi complessa la vita di tutti i giorni.
In questi giorni sono senza forze, senza voglia, senza niente. Non è un senso di vuoto, è un senso di <inganno estremo>. E' un senso di essere piccola sotto una trave pesante ma su cui appoggio vasi di fiori, cestini con caramelle, festoni colorati.
La più grande domanda del mio passato adesso è diventata un interrogativo a cui rispondere: lei immaginava questo? Lei sapeva che sarebbe successo questo? Lei che ha capito di me che io non riesco a capire, né mia madre, né nessuno? 

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